Il Giro piange i suoi corridori
26.05.2012, Articolo (da “La Calzetta del Giro”, numero speciale del giornalino “Fuori dalla Rete” del 13.5.2012)
Quando ci si dedica con passione a uno sport spesso non si tiene conto dei “rischi del mestiere”, ciò che conta è la vittoria, ma per quanto la determinazione possa contare spesse volte è la fatalità, una piccola distrazione, ad impedire la realizzazione di un sogno. Purtroppo non sono pochi quei ciclisti che trovano in gara il loro ultimo traguardo.
Anche il Giro d’Italia conta le sue vittime: quattro. Siamo nel ’52 quando Orfeo Ponsin viene sbalzato dalla sella nella discesa di Merluzza. E il 1976 quando lo spagnolo Juan Manuel Santisteban perde la vita a Catania dopo essere stato coinvolto in una violenta caduta e dieci anni dopo, sempre in Sicilia, a Palermo, Emilio Ravasio è vittima di un incidente. Infine, lo scorso anno, nel corso della terza tappa la carriera del 26enne belga Wouter Weylandt viene improvvisamente stroncata da una violenta caduta sulla discesa di Rapallo. La difficoltà del tratto non era ardua, ma purtroppo in sella a due ruote la distrazione di un secondo sommata all’alta velocità può risultare fatale e ciò che rimane è la tristezza dei compagni di squadra che proseguono amaramente nella gara e la desolazione dei tifosi che conserveranno comunque il ricordo di un campione. Ma quella del 26enne belga Wouter Weylandt, caduto durante un tratto in discesa della terza tappa del Giro d’Italia, è solo l’ultima delle tragedie del ciclismo.
Tuttavia, andando al di la del Giro italiano la triste galleria delle morti sulla bicicletta e sfortunatamente molto lunga, la più nota è quella di Tommy Simpson agonizzante sul Mont Ventoux, nel luglio del I 967, durante una tappa del Tour e in seguito deceduto per arresto cardiocicolatorio. Questo è solo uno dei più tragici incidenti del ciclismo di tutti i tempi, si accerterà successivamente che la causa del decesso fu un cocktail caldo-anfetamine. Altre immagini impossibili da dimenticare sono quelle dell’agonia di Fabio Casartelli, sempre al Tour de France del 1995. Il 18 luglio, durante la 15a tappa del Tour de France (Saint Girons-Cauterets), Casartelli cade nella discesa del Colle del Portet-d’Aspet, battendo violentemente la testa contro un paracarro: muore durante il trasporto in elicottero all’ospedale di Tarbes, senza aver mai ripreso conoscenza. Da quel momento diviene obbligatorio l’uso dei caschetti rigidi durante le gare. L’immagine di Tommy Simpson agonizzante sul Mont Ventoux al tour, lo sgomento della morte di Pantani, ucciso da una dose abnorme di cocaina.
Sono questi i simboli principali delle strane morti del ciclismo, uno sport che di tragedie personali ne ha vissute tante, ma non tutte sulle strada, non tutte immediatamente spiegabili. In questo contesto rientra la morte di Valentino Fois, trentaquattrenne, il quale viene trovato morto nella sua abitazione di Villa D’almè. Fois aveva corso al fianco di Gianni Bugno, Pavel Tonkov e Marco Pantani. In passato era stato coinvolto in vicende di doping. La sua vicenda sembra collegarsi perfettamente a quella del Pirata, suo compagno di squadra nel 2002 alla Mercatone Uno. I problemi col doping per Fois, arrivarono proprio in quel 2002. Il 2 giugno di quell’anno durante i controlli antidoping al Giro d’Austria, viene trovato positivo ai metaboliti del nandrolone. La Procura antidoping del Coni chiede per lui la squalifica a vita, la disciplinare Io sospende per 12 mesi ma alla fine arriva la sentenza della Caf che lo condanna a rimanere lontano dalle corse per tre anni. La sua carriera si è chiusa di fatto lì ed è cominciato per lui un lungo è inesorabile declino. Arriva la depressione tanto che, per sua stessa ammissione, va in cura in un centro tossicologico di Parma. Non nega mai i suoi problemi col doping, una pratica comune, come raccontava in un’intervista esclusiva alla Gazzetta dello Sport. “Prendevo quello che prendevano tutti – diceva – e se qualcuno nega è bugiardo. Dovevamo scendere a compromessi. Il mondo del ciclismo, fino allo scandalo Festina del1998, era tutto una schifezza. Gestivano tutto medici e direttori sportivi”