Bisogna dire la verità ai malati?
Sì, i malati si curano con la speranza
(UMBERTO VERONESI – La Stampa, 31.05.2010)
Ha ragione Ferdinando Camon («Bisogna dire la verità ai malati?») e hanno torto i primari: non è giusto mai che il medico dia un orizzonte temporale – giorni, mesi, o anni che siano – alla vita del malato, e non è vero che sia obbligato a farlo per legge.
Secondo le norme di deontologia medica dire la verità è un dovere del medico e conoscerla è un diritto del paziente. Ma va fatto un distinguo, perché la verità sulla malattia è composta da due momenti: la diagnosi e la prognosi. La diagnosi va comunicata sempre perché è una conoscenza verificabile, documentata e documentabile. È dunque certa, con i limiti intrinseci di ogni certezza in medicina, che non è una scienza esatta. Nell’informare della diagnosi il compito del medico è dunque spiegare qualche cosa che è scritto nero su bianco e che, se venisse taciuto, sarebbe comunque prima o poi scoperto attraverso altre vie: la cartella clinica, l’amico male informato, l’infermiere o il vicino di letto in ospedale.
Sapere la propria diagnosi per errore è il modo peggiore, perché la persona si sente ingannata, perde la fiducia nel medico e nella cura proposta, e precipita in un mare di ipotesi fantasiose e spettri allarmanti.
Anche la prognosi va comunicata dal medico e non da altri, ma il discorso è molto diverso perché la prognosi è un’ipotesi basata sulla proiezione delle statistiche e i dati riferiti alla malattia del paziente. Ma ogni paziente è diverso, ogni persona è un unicum. Non esistono percentuali certe di remissione o di condanna perché troppe sono le variabili in campo e per questo nessun medico potrà mai essere sicuro di cosa succederà veramente a quel paziente. Più di una volta nella mia professione mi è successo che casi considerati gravissimi hanno inspiegabilmente avuto un’evoluzione positiva, e persone considerate spacciate sono state recuperate alla vita per lunghi periodi. Del resto il codice deontologico medico parla molto chiaro: «Le informazioni riguardanti prognosi gravi o infauste o tali da poter procurare preoccupazione e sofferenze particolari al paziente, devono essere fornite con circospezione, usando terminologie non traumatizzanti, senza escludere mai elementi di speranza». Dunque la legge ci dice che il medico quando fa una prognosi deve esplorare chi gli sta di fronte, valutare quanto sia in grado di capire e quanto voglia conoscere. Esiste anche, per il malato, il diritto di non sapere, perché non tutti vogliono sapere tutto e anche questa volontà va rispettata. In ogni caso va sempre lasciata una speranza, perché c’è sempre uno spiraglio da aprire, qualcosa in più da fare. Quando il medico comunica la prognosi deve pensare che non sta parlando di ciò che è, ma di ciò che potrebbe essere: del futuro e delle aspettative della persona malata.
La prospettiva cambia e il suo obiettivo deve essere di mantenere un benessere e una serenità compatibile con la situazione clinica. Direi in sintesi che il medico ha il dovere di mantenere un visione ragionevolmente ottimistica. Deprimere il paziente e creargli angoscia con una visione buia non serve a nulla: non aiuta il paziente, non aiuta il medico. Un malato angosciato è più difficile da curare e invece la speranza e la fiducia che può infondere un medico si trasforma in forza d’animo per il paziente e in voglia di combattere la malattia ad ogni stadio. Come ho scritto per la nona Giornata del Sollievo, che ho istituito come ministro della Sanità il giorno 30 maggio, tutti i medici dovrebbero ricordare che anche quando non si può più guarire, il nostro dovere più alto rimane quello di curare dando, appunto, il Sollievo, che non viene solo da una terapia, ma anche da un gesto, una carezza, uno sguardo, che faccia sentire fortemente al malato la dimensione umana che dovrebbe essere alla base del rapporto medico-paziente, sempre, fino all’ultimo
Bisogna dire al verità ai malati?
(FERDINANDO CAMON – La Stampa, 30.05.2010)
E’ giusto che il medico curante dica, al paziente inguaribile e ai suoi parenti stretti, che morirà entro pochi mesi? Il primario che m’ha sbattuto in faccia questa sgradevole verità mi ha spiegato: siamo obbligati per legge a dire la verità, se il paziente ce la chiede non possiamo essere né mendaci né reticenti, perché se gli diciamo un’altra verità e lui viene a sapere la verità vera, può rivalersi su di noi per l’inganno.
Se un medico dice che questa è la nuova etica dei medici devo credergli. Tuttavia, dire la verità e dirla con termini netti, spietati, senza scampo, sarà deontologico ma non è umano.
Un mese fa una mia parente vien ricoverata per leucemia. Buon trattamento, buona sistemazione, e, ritengo, buone cure. Vado a parlare col primario. Prime sorprese: in portineria mi fermano, non è che dopo di me qualcun altro vorrà sapere? Io sono il fratello del marito, può darsi che anche il marito venga a informarsi. Ma non posso informarlo io? Va bene, lo informerò io, ditemi. Mandano a chiamare il primario. Molto preparato, eccellente medico. Mi domanda se la paziente è contenta che io venga a sapere. Dico: la paziente è qui, può domandarglielo. Ma io voglio sapere la diagnosi o la prognosi? Tutt’e due, soprattutto la prognosi, se la parente guarirà e tornerà a casa. Sta dritto davanti a me, a un metro di distanza. La sua comunicazione è la seguente: «Certamente», pausa, «questa malattia», lunga pausa prima della parola seguente, «ucciderà», pausa, «la signora», ultima pausa, «nel giro di pochi mesi». Mi guarda. Lo guardo, e lo vedo oscillare nel senso destra-sinistra. Sta svenendo, penso, quel che dice gli pesa. Ma sono io che oscillo, quel che sento mi pesa.
Lui è un medico, io uno scrittore. Come scrittore, peso le sue parole. Le più pesanti sono due: «certamente» e «ucciderà». Il «certamente» non lascia nessuno spazio né al dubbio né alla speranza: è così e basta. «Ucciderà» è un verbo attivo (molto diverso da «morirà»), qualcuno o qualcosa sta uccidendo qualcun altro. La frase «questa malattia ucciderà la signora» descrive il paziente come un condannato alla fucilazione appoggiato al muro, qualcuno sta per sparargli, nella scena non c’è nessun altro che si opponga. Né medico né scienza, niente. Il mio istinto è il rifiuto: «Ma scusi, verrà anche il marito, glielo dirà negli stessi termini?», «Siamo tenuti per legge a dire la verità, non possiamo lasciare confusione», «E se lo chiede la paziente?», «Se la signora vuol sapere, dobbiamo dirle tutto». Mi lascia. Fra poco metteranno nell’atrio un robot, tu digiti la domanda, e da una feritoia del monitor ritiri la risposta.
Ora il problema è mio, chiamo sul cellulare il marito e cerco di dire le stesse cose che m’ha detto il medico ma cerco altre parole: «È una malattia contro cui la medicina non può fare niente, ma i medici qui faranno di tutto». Lui capisce che è una lotta tra medici e malattia, e dice che si potrebbero trovare altre possibilità cercando altri medici, forse al San Raffaele… Gli spiego che non è un limite dei medici ma della scienza. Capisce, ma tuttavia vuol cambiare ospedale. Nel nuovo ospedale la chemio ha un’efficacia imprevista, i globuli bianchi scendono precipitosamente, parlo col nuovo primario: «Com’è la situazione?», «Ottima». Mi aggrappo alla loro deontologia che impone la verità, se la verità è ottima forse c’è qualche possibilità: «Scusi, previsioni?», «Pessime», «Speranze?», «Nessuna». Chiamo sul cellulare il medico di base: «Ma lei per una settimana diceva che si può fare questo e si può fare quello, negli ospedali dicono che non si può fare niente», «Loro parlano secondo la legge, io mi rifiuto di rassegnarmi». È durata un mese. Un giorno prima della fine la signora ebbe un sospetto, chiese spiegazioni, le dissero la verità. La notte dopo si spense. Se le avessero detto la verità un mese prima, nei termini in cui l’han detta a me, si sarebbe spenta un mese prima. Forse è vero che «questa malattia uccide il paziente nel giro di pochi mesi», ma se la nuova etica dei medici è questa (dire tutto subito, in forma chiara anche se brutale), da profano temo che questa etica uccida il malato nel giro di pochi giorni.