I varroni e la raccolta delle castagne
04.10.2011, Articolo di Aniello Russo (tratto da “Il Corriere” di domenica 02 ottobre 2011)
C’era una volta la castagna… ma che dico? La castagna c’è ancora, anche se malata. Non c’è più, però, tutto quel mondo di fatiche all’aperto, all’acqua e al vento, a cui venivamo sottoposti soprattutto noi ragazzi. Ci chiamavano varroni e, sin dalla tenera età, venivamo affittati dai proprietari dei castagneti, che si rivolgevano ai nostri genitori, dando loro una caparra con cui ci impegnavamo a raccogliere le castagne (arrugnà e’ castagne). E il lavoro di raccolta cominciava nei primi giorni di ottobre e terminava il giorno dei morti.
Diceva infatti un proverbio: A san Franciscu ‘e castagne co’ ‘e canìste. (A San Francesco, che si festeggia il quattro di ottobre, le castagne col canestro).
La caparra era di cinque lire, e guai se non si rispettava l’impegno contratto! Se un ragazzo non si recava al lavoro, anche a causa di un’improvvisa malattia, la famiglia avrebbe dovuto restituire il doppio della caparra. Insomma, si campava anche sulla miseria della gente. E non era tutto! Noi venivamo sottoposti a una sorta di visita di controllo da parte del padrone, di quelle che si fanno per il servizio di leva o, meglio, ai muli acquistati nei mercati. Il padrone badava all’aspetto fisico, verificava la robustezza e la forza, per proporzionare il carico che le nostre spalle avrebbero dovuto reggere.
Le bambine, invece, non erano adatte a questo lavoro perché non avrebbero potuto resistere al logorio fisico cui noi altri maschietti eravamo sottoposti. Comunque anche le ragazze non stavano con le mani in mano: si riunivano con le donne adulte nei casolari per aiutarle nella scelta delle castagne, scartando le piccole destinate a essere essiccate e le bucate (cicàte) destinate ai maiali.
Il nostro lavoro era massacrante. Si usciva di casa all’alba (mpunt’e’ juorne) o addirittura all’ora del gualano, cioè alle quattro del mattino (l’ora era così detta perché era il momento in cui il garzone portava le mucche all’abbeveratoio) per chi doveva raggiungere un castagneto più lontano; e alle prime luci del giorno si iniziava la raccolta delle castagne con la schiena china al suolo. Si cominciava tanto presto, perché durante la notte cadevano parecchi frutti, che potevano fare gola ai ladruncoli che si aggiravano in quei tempi tra un castagneto e l’altro. Povera gente, però, che così si procacciava di che mangiare per qualche giorno. Spesso era il padrone stesso che conduceva il ritmo del lavoro, intanto che girava l’occhio attento attorno per controllare chi si attardava. Allora noi, anche per ammazzare la noia, attaccavamo a cantare. Dopo qualche ora il padrone ci lasciava (a lui era concesso di essere stanco, ma a noi non era consentito mostrare alcun segno di stanchezza) e andava a stendersi o sotto un albero di castagno o dentro il pagliaio.
Bastava un’occhiata tra noi e subito si levava un canto di ingiuria: E lu patrone mio è no lione, re la fatìa no’ s’abbotta mai! Tutti li juorni rici: “Mena, mena!”, “Luvati manu!” nu’ re dici mai. Isso faci la fatìa re lo cane: se mette nterra e còtela la cora. (Il mio padrone è come un leone, non si stanca mai di lavorare! Tutti i giorni: “Forza, dài!” “Togliete mano” non lo dice mai. Lui fa la fatica del cane: si sdraia e scodinzola la coda!).
Il padrone, pur sentendosi canzonare, non batteva ciglio; tanto a lui una cosa sola importava: che noi non smettessimo di faticare. Le castagne le deponevamo, man mano che le raccoglievamo, in un cesto che portavamo con noi, o nel paniere di legno (panaro), che, quando era pieno pesava circa dieci chili; e per noi ragazzi era una gran fatica portarlo su e giù per il fondo. Inoltre stare con la schiena curva per tutta la giornata era per noi una sofferenza. Ma che potevi fare? Una volta che il padrone ti aveva affittato e aveva consegnato la caparra, tu diventavi una cosa di sua proprietà e poteva disporre di te come meglio credeva.
Nei castagneti in quei giorni era un pullulare di persone; non mancavano le donne, assunte anch’esse per la raccolta, giovani e anziane. Le ragazze erano chiamate castagnare o mesarole (donne assunte per un mese), mentre noi ragazzi ci chiamavano, come ho detto prima, varroni. Durante il giorno non restavamo sempre allo stesso posto, ma ci spostavamo da una selva all’altra, ad arbitrio del padrone, o a seconda della giornata ventosa, che buttava al suolo migliaia di castagne; il lavoro aumentava anche con la pioggia: il riccio col peso dell’umidità cadeva e, se la castagna rimaneva nel riccio, questo veniva schiacciato col piede per farla uscire. I cardi più duri si aprivano a mani nude, e la nostra pelle, ancora molto delicata per la nostra età, non tollerava le punture del riccio, sicché alla fine della giornata dovevamo estrarre dalle dita, aiutandoci anche coi denti, tutti gli aghi che si erano insinuati sotto pelle, per non rischiare di contrarre infezioni. E guardavamo con occhi sgranati gli adulti che estraevano le castagne senza difficoltà; le loro mani callose riuscivano anche a maneggiare i tizzoni accesi o addirittura i carboni, con cui si accendevano le sigarette.
In caso di pioggia, noi ci riparavamo nel pagliaio fatto con assi di legna di castagno, ricoperte con grosse zolle di terra erbosa (e’ pandosce), sicché anche se pioveva a dirotto l’acqua non vi filtrava (no’ perciava). Ma, in questo caso, per noi era una maledizione: seppure avevamo lavorato per due o tre ore, la giornata non ci veniva pagata. E la sera tornavamo a casa non solo bagnati fradici, ma anche con le tasche vuote! A mezzogiorno si mangiava un po’ di pizza che consumavamo seduti ai piedi delle piante o accanto al pagliaio, e subito dopo la breve interruzione si riprendeva il lavoro, dietro il sollecito invito del padrone. La pizza era fatta solamente con farina di granturco, mentre o’ scagnuozzo si preparava con granone e segala (o’ jermano). I più fortunati portavano anche una cipolla o due pomodori con un po’ di sale, che mettevano tra due fette di pane; o, meglio ancora, qualche sarda sotto sale (a’ saràca). Se andava bene, a casa, la sera trovavamo finalmente un piatto di pasta con le patate o con i fagioli, altrimenti o insalata o verdura cotta. Durante la breve pausa nel castagneto ci guardavamo l’un l’altro, invidiando chi poteva mangiare un boccone migliore o più abbondante.
La nostra giornata era segnata dalle ore canoniche: aveva inizio circa alle ore quattro, in cui ci levavamo dal letto e prendevamo la via per raggiungere il luogo del lavoro; alle ore nove già mettevamo sotto i denti il primo boccone di pane o una mela, senza interrompere la fatica; alle ore undici, quando ci giungeva dal paese il suono delle campane che chiamavano a messa (azaméssa), c’era chi approfittava per fare una sosta di un attimo o per bere o per drizzarsi e farsi il segno della croce. A mezzogiorno (miezzojuorno) si smetteva di lavorare per una mezz’ora e si consumava la colazione; poi attendevamo con ansia il suono della campana di ventunora (tre ore prima del tramonto) e cominciavamo ad alzare il capo, aspettando che il padrone ci desse il segnale della fine della giornata di lavoro. Spesso, però, il padrone aspettava sino all’ultimo barlume di luce (vintiquattora), prima di mandarci a casa.
Allora i raccoglitori più anziani si davano un’occhiata d’intesa e cantavano in coro un canto di protesta: Lo padrone mio mangia nocelle e mosera nce ne manna co re stelle… (Il padrone mio mangia nocciuole e questa sera ce ne manda con le stelle!).
Quando cominciava a fare buio, cioè solo allorché la castagna non si distingueva più al suolo, il padrone ci caricava sulle spalle un grosso sacco pieno di castagne, che noi portavamo in un piccolo caseggiato al centro del castagneto, detto porcile. Tutti i giorni così, e noi tornavamo a casa a pezzi.
Verso la metà di novembre i proprietari smettevano di raccogliere le castagne nei loro fondi e abbandonavano i castagneti, lasciando o’ ruozzolo, cioè permettevano che i poveri del paese potessero farsi una mangiata; e queste erano dette le castagne dei poveri. Infatti a quei tempi molta era la gente che, finita la raccolta, rovistava tra le foglie e i ricci, cercando qualche castagna – grande o piccola o bucata che fosse – per portarla a casa e conservarla sotto la terra di castagno per il pranzo di Natale o per le lunghe serate invernali che si passavano accanto al focolare. Ma c’erano anche padroni che non volevano lasciare neppure i gusci vuoti delle castagne (e’ cocchile), e ci costringevano a passare e ripassare il suolo con un bastone biforcuto (a’ furcinella), con la schiene china, rivoltando le foglie (e’ pampene) e ad aprire i ricci non ancora dischiusi.Anche i ricci vuoti e secchi venivano utilizzati come combustibile: si raccoglievano nei sacchi di juta e si portavano a casa, pronti a ravvivare il fuoco dei nostri camini. Insomma quei erano tempi in cui non si gettava niente!
Per tutto il tempo della raccolta delle castagne, che durava l’intero mese di ottobre, noi disertavamo la scuola. Poi, quando riprendevamo a frequentare, la mattina portavamo in aula le tasche piene di ballotte, che la mamma cuoceva assieme al pasto per i maiali.
Così recitava un detto: Co’ castagne e patanielli criscimo figli e purcielli (Con castagne e patate alleviamo figli e maiali).
In classe, durante le lezioni, per il freddo tenevamo sempre le mani in tasca per cercare di prendere dalle castagne cotte tutto il calore che ancora emanavano. Le ballotte erano la nostra colazione: quello allora avevamo, nient’altro! All’uscita di tutti gli scolari, poi, le aule erano piene di bucce di ballotte, e i bidelli si dannavano per pulire…
(Da “L’immaginario collettivo degli Irpini” di Aniello Russo)
Il Corriere (02.10.2011) – I varroni e la raccolta delle castagne, articolo di Aniello Russo