Nella magica notte di San Giovanni
21.06.2011, Articolo di Aniello Russo (da “Il Corriere” del 19.06.2011)
Il solstizio estivo, come quello invernale, Capodanno del secondo semestre dell’anno, è carico di prodigi e di sacralità.
Il calendario popolare irpino contemplava due momenti magici nel corso dell’anno. Due soglie, due giornate cardine, che la Chiesa ha inteso intitolare a due San Giovanni: a San Giovanni Evangelista la giornata del 27 dicembre, che apre il primo semestre dell’anno nuovo; a San Giovanni Battista la giornata del 24 giugno, che si può considerare il capodanno del secondo semestre. Due solstizi dedicati a due Giganti della Chiesa: il primo, quello invernale, a San Giovanni che ride (San Giuvannu ca rire); il secondo, quello estivo, a San Giovanni che piange (San Giuvannu ca chiangi). Nella festività del primo Giovanni si assiste al prorompere delle forze del bene; perciò il Santo ride. Nella festività dell’altro Giovanni, si scatenano le forze del male; perciò il Santo piange. Recita un proverbio irpino (Bagnoli): A nu San Giuvannu la jurnàta s’abbìa a allungà; a n’atu San Giuvannu s’abbìa a accurcià. La prima parte dell’anno è caratterizzata dal freddo, dalla neve e dall’astinenza (in essa ricade il lungo periodo quaresimale); la seconda parte che prende inizio in questi giorni, è contrassegnata dall’esplosione della natura (e quindi dall’abbondanza dei prodotti dei campi). Dice il mese di giugno nella filastrocca irpina dei mesi: So’ bbenùtu cu na bbona capu: ve portu fave, fasuli e ggranu. Rongu la cunsegna a lugliu: ca nun chiuvésse mancu uogliu! (Sono venuto con buone intenzioni: reco con me fave, fagioli e grano. Nel dare la consegna al mese di luglio, gli raccomando di non lasciare spazio alle piogge, neppure se piovesse olio!). Il solstizio estivo (ricordiamo l’etimologia: il sole si ferma!), come il solstizio invernale (il tempo allora si ferma per consentire la nascita di Gesù!) è carico di prodigi e di sacralità. Cioè, questi momenti sono contemporaneamente: tempus sacrum et tempus horrendum. Fiorivano un tempo in tutta l’Irpinia le pratiche magiche, i riti divinatori, le ritualità di connotazione pagana. Richiamo solo alcuni dei riti divinatori, che si praticavano in varie aree della provincia, con diversità insignificanti.
Riti divinatori
La sera della vigilia di San Giovanni Battista la ragazza innamorata cerca di leggere nel cuore del suo amato: si procura un cardo e lo brucia alla fiamma di una candela. Se nonostante tutto al mattino lo trova fiorito, è segno che il fidanzato ricambia il suo affetto. Se il cardo non fiorisce, è segno che prima o poi lui la abbandonerà irrimediabilmente. La fonte di Bagnoli, Giulia Ciletti, aggiunge che il cardo andava prima unto con l’olio, e precisa che il rito divinatorio era volto a conoscere se una ragazza avrebbe trovato marito oppure no. In questa notte magica non è solo il cardo a possedere virtù divinatorie. Le ragazze ricorrevano anche all’albume: mettevano la chiara d’uovo in un bicchiere e lo esponevano al sereno per tutta la notte. L’indomani, dalla forma assunta dall’albume, sarebbero riuscite a desumere il mestiere del futuro marito. C’era però un detto che ammoniva: So’ ddesideri vanili suonni ca te fai la notte r’ San Giuvanni!(Ingannevoli i sogni e le speranze che accende la notte di San Giovanni). Quest’altra pratica magica era diffusa in tutta l’Irpinia. Per conoscere il loro futuro, le adolescenti facevano così: mettevano in una paletta un pezzettino di piombo e lo lasciavano sciogliere al calore del fuoco. Una volta che il piombo era diventato liquido, lo buttavano in una bacinella d’acqua. Dalla forma assunta dal pezzettino di piombo, nuovamente solidificato, pronosticavano il mestiere del futuro marito: se assumeva la forma di un castello, la fortunata ragazza avrebbe sposato un nobile; una barca pronosticava un viaggio per mare; una falce equivaleva a un marito contadino; una lesina a un marito calzolaio, una sega a un marito falegname ecc. La pratica augurale veniva ripetuta a Capodanno (e non è un caso il ripetersi dei riti due volte nell’anno, all’inizio dei due semestri). Non solo le adolescenti innamorate ricorrevano a queste pratiche rituali, bensì pure le donne già stagionate e le vedove ancora giovani. Sempre la sera del 23 giugno, le ragazze più grandicelle (a quei tempi, superata la soglia dei vent’anni, eri già avviata sulla strada del nubilato, e incombeva il marchio che tutte temevano, quello di essere bollata con l’epiteto di vecchia zita!) attendevano in gruppo il sorgere della luna. C’era una gara tra queste fanciulle in età da marito, un gara feroce a chi per prima individuava nel cerchio della luna la testa mozzata e insanguinata di San Giovanni Battista (Carife: fonte, don Vito). Questo il premio: sarebbe stata lei la fortunata che per prima avrebbe salito l’altare al braccio dello sposo! A Pietrastornina, invece, le ragazze, che speravano in un immediato matrimonio, attendevano l’alba del giorno di San Giovanni (24 giugno), perché si credeva che fosse possibile vedere la testa recisa del Santo nel cerchio del sole, appena sorgeva. A Carife (fonte: Don Vito) la mattina della ricorrenza festiva, la gente del luogo si inerpicava sulla collina più alta, lu Sierro de lu mare, il Picco del Mare, da cui la vista poteva arrivare fino al mare, e attendeva l’alba, per trarre dall’osservazione del chiarore dell’alba gli auspici per tutto l’anno: se l’orizzonte col sorgere dell’alba mostrava un diffuso colore rosseggiante, le previsioni erano infauste; se il cielo era invece chiaro, le previsioni erano fauste. C’era pure chi giurava di vedere nella luce dell’orizzonte la testa decapitata di San Giovanni in mezzo a un mare di sangue. La medesima fonte ricorda che nella stessa ricorrenza si scioglieva la cera e poi si gettava in un recipiente colmo d’acqua: solidificandosi la cera assumeva la forma della testa del Santo decapitato.
La prova del bastone
La transumanza dei pastori durava dal mese di novembre fino al giorno di San Giovanni, quando l’erba era già alta nei pascoli sui monti. Si dice che, se al ritorno in seno alla famiglia trovava una nuova creatura, il pastore lo sottoponeva alla prova del bastone. Si avvicinava alla culla e gli allungava il bastone: se il piccolo lo stringeva nel pugno, il pastore aveva la prova che il figlio era suo e lo legittimava. Il bastone, che presso le antiche civiltà era simbolo di regalità, richiama il lituus romano che era ritenuto il più grande segno di divinazione (Cicerone, De divinazione, I, 30).
Pratiche propiziatorie
Nella notte di San Giovanni Battista, tra il 23 e il 24, si coglievano, e c’è ancora chi le coglie, le noci ancora acerbe: si pongono nello spirito e si lasciano a macerare per quaranta giorni. Se ne ricava così il liquore detto nocino. Altro momento propizio alla raccolta delle erbe magiche era, limitatamente però alle erbe che dovevano essere utilizzate per le pratiche divinatorie, la ricorrenza di San Giovanni. Si tratta di erbe naturali, erbe spontanee, come la ruta e la valeriana, che vengono poi utilizzate nelle pratiche terapeutiche e nei rituali magici. Un’antica tradizione attribuisce a queste erbe, oltre a virtù curative (La ruta ogni male stuta; La valeriana ogni male sana; Lu marrubbiu ogni malu strugge), soprattutto carattere magico, poiché sono ritenute dotate di proprietà miracolose; funzionano infatti anche come amuleti. La valeriana aveva virtù apotropaiche; infatti, era tra queste erbe un potente talismano per esorcizzare il demonio. L’estirpazione di queste piante medicinali va effettuata, secondo le informazioni di quasi tutti i nostri testimoni, nelle ore notturne. Altrimenti i decotti e gli infusi preparati perdono le loro virtù miracolose. Ma c’era anche chi usciva all’alba (a prim’ora) del ventiquattro e si avviava nei campi per raccogliere in un’ampolla la rugiada caduta nella notte. Una sola goccia di quella rugiada dà forza a qualsiasi preparato terapeutico.
Credenze popolari
Oltre ai riti divinatori e alle pratiche propiziatorie, fiorirono numerose credenze legate all’inizio dell’estate (la staggione), e in particolare in coincidenza con la festività di San Giovanni. Dei bambini che nascevano la notte di Natale, arrivati all’età di quindici anni, il maschio diventava lupo mannaro, la femmina janàra. L’iniziazione avveniva durante la grande tregenda, nella notte tra il 23 e il 24 di giugno, la notte di San Giovanni Battista (Guardia dei L. fonte, Clara De Simone, reg. 1987). Queste figure fantastiche (che non sono streghe!) sono il parto dell’immaginario collettivo di due province confinanti (l’Irpinia e il Sannio). Il convegno di tutte le janàre si teneva sotto il noce di Benevento. Le ragazze quindicenni iniziate ricevevano, quale investitura, dal capo stregone, una scopa e un libro del comando, ove erano riportati tutti i sortilegi e gli incantesimi da praticare a danno di chiunque avesse osato usare loro anche la più piccola scortesia. La metamorfosi in janàra dura dalla mezzanotte all’alba. Particolarmente feroci questi esseri dalla doppia natura, umana e demoniaca, si mostrano durante la notte di San Giovanni: vanno a caccia di neonati per renderli storpi o per bruciarne i corpi e ricavarne un unguento che, spalmato sotto le ascelle, consente loro di spiccare il volo nella notte …
(tratto da “L’immaginario collettivo degli Irpini”)
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Il Corriere, 19.06.2011 – Nella magica notte di San Giovanni, di Aniello Russo